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56 ore in Puglia, il mio viaggio on the road
dalle Murge al Salento

di Samantha De Martin
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Luce da sud e grecale che confonde. Il bianco dei trulli, l’ocra della pietra di Lecce, il rosso delle Murge e gli infiniti blu dei mari, tanti quante sono le anime di questa penisola nella penisola, che sa di sole e di finocchio, di erica e tramonti, gitani e sconfinati senza altezze che imbrigliano lo sguardo.

La Puglia è la scommessa di un sud che ce l’ha fatta, con le sue viti protette come spose e gli ulivi forti, alcuni convalescenti, altri guariti, altri piccolissimi, a suggerire che qui, in questo cantuccio di est, la vita ha vinto. La ritrovo in un weekend di inizio giugno, impegnandomi a captarne quanto più possibile il carattere, ripromettendomi di tornare e sfogliarla con lentezza, come merita il suo incedere lento, accompagnato da millenni di storie, sotto un cielo rococò che abbaglia.

Poco più di due giorni sono infinitamente pochi per far sì che questa fugace visita si trasformi in viaggio. E me ne scuso con chi legge. Ma ho cercato di respirarla il più possibile, per offrire qualche suggerimento a chi, pur avendo poco tempo a disposizione, vuole comunque provarci. Ad aiutarmi in questa fuga con l’orologio, due locals. A loro il mio ringraziamento per aver fatto sì che il tempo fosse utilizzato al meglio, minuto per minuto, e le scarpe corressero senza indugi. E senza inciampi.

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Una veduta dei trulli di Alberobello | Foto: Samantha De Martin

Trulli all’orizzonte

Arrivo a Bari da Roma con un Italo puntuale e pulito. Macchina a noleggio da Good Rent e via verso Alberobello. Dopo meno di un’ora ecco i primi trulli. Il loro nome greco ne ricorda la forma, a cupola. Ma questa costruzione conica in pietra a secco tradizionale della Puglia centro-meridionale, generalmente costruita come abitazione per contadini o agricoltori, rappresenta un’evoluzione del modello preistorico della thòlos, diffuso anche in altre aree del Mediterraneo.

Lascio la valigia a Palazzo Agrusti, un residenza d’epoca in stile neoclassico sapientemente gestita da Marilda. Le camere, affacciate su Corso Vittorio Emanuele, raccontano la storia dell’omonima famiglia che, già nel 1807, possedeva per abitazione alcuni trulli con adiacente orto.

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Il cortile del Trullo Sovrano | Foto: Samantha De Martin

Da sapere. Il decreto regio del 1797 aveva abolito il secolare obbligo imposto dai conti di Conversano di edificare case solo a secco, cioè a trulli, e per giunta senza finestre; fu possibile pertanto costruire per la prima volta fabbricati con la malta, liberamente secondo le preferenze dei cittadini.

E il trullo Sovrano? Perché ad Alberobello esiste un trullo (decisamente “outsider”) costruito con la malta sfidando il divieto dei conti? Mi incuriosisce. Lascio Palazzo Agrusti e lo raggiungo. La maestosa cupola conica, alta circa 14 metri, si erge imponente al centro di un gruppo costituito da dodici coni. Questo edificio di transizione che preannuncia il mutamento generale della tecnica di realizzazione dei trulli, risale, nel suo nucleo originario, agli inizi del 1600, mentre la parte restante fu costruita nella prima metà del 1700 per conto della famiglia benestante del sacerdote Cataldo Perta. Il trullo Sovrano è l’unico ad avere un piano sopraelevato. Nel tempo l’edificio è stato corte, cappella, spezieria, cenobio, oratorio campestre, abitazione e persino dimora temporanea per le reliquie dei patroni, i Santi Cosma e Damiano. Oggi è di proprietà della Famiglia Sumerano e, nel piccolo e ben allestito museo all’interno, gli arredamenti e tutti gli oggetti esposti sono autentici.

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Alberobello | Foto: Samantha De Martin

Dal rione Monti – così chiamato perché ogni strada del quartiere prende il nome di uno dei monti dove si è combattuto durante la I Guerra Mondiale – l’esperienza tra i trulli diventa un’autentica immersione tra pietra calcarea e simboli runici (rappresentati sui tetti). Dedico qualche ora a perdermi tra le stradine del quartiere, tra negozietti di artigianato e manifattura locale che espongono asciugamani in lino e “Macramè”, i caratteristici fischietti e gioielli all’uncinetto.

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Scalinata ad Alberobello | Foto: Samantha De Martin

Nel regno delle cummerse

Se Alberobello è la capitale dei trulli, Locorotondo, a solo mezz’ora d’auto, è il regno delle cummerse. Questo nome deriva dai tetti spioventi di abitazioni rettangolari, realizzati in chiancarelle, lastre di pietra calcarea, di cui è ricco il sottosuolo.

Al tramonto, quando l’ultima luce rende ancora più definito “U curdunn” (come gli abitanti chiamano questo borgo bianchissimo dalla pianta circolare) la passeggiata diventa poetica. Dal cosiddetto “lungomare” (il mare non c’è ma la luce sembra praticamente la stessa) la Valle d’Itria si spalanca in tutta la sua pace. Saluto Locorotondo, con le sue chiese, il barocco Palazzo Morelli, la villa comunale, il profumo di carne al fornello . Notte ad Alberobello e, all’alba, giù verso il Salento.

La Statale 172 scivola senza fretta coccolata dalla Valle d’Itria, tra masserie, terre rosse, muretti a secco. Secondo Wiki questa valle fu abitata già nell’Età del Bronzo finale (fine del II millennio) da comunità iapigie e messapiche. Sfioro Ostuni, la città bianca che sbuca dalla terra con la sua sagoma puntuta. Ho il tempo di una foto. Prometto di tornare.

Direzione Salento

Il Salento mi accoglie battendo impaziente il suo tacco sospeso tra l’Adriatico e lo Ionio. Rallento.

Adesso i vigneti cedono a ulivi solenni dai tronchi contorti, a una terra ancora più sanguigna. Giallo è il colore di questa che i Greci chiamavano Messapia (“Terra fra due mari”), prosperata sotto Federico II. Mi viene in mente che, non molto lontano da qui, nella regione storica della Grecìa Salentina, tra Calimera, Castrignano de’ Greci, Corigliano d’Otranto, Melpignano, Soleto, sopravvive la “minoranza linguistica grica dell’etnia grico-salentina”. Ma lascio un segnalibro e punto verso la Lecce rococò.

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Porta Napoli, Lecce | Foto: Samantha De Martin

Alloggio da Apollo Suites, un palazzo novecentesco ubicato in pieno centro storico, in una camera elegante e silenziosa e le coccole al pasticciotto degli ospitali titolari. Il tour ha inizio da piazza sant’Oronzo, simbolo della storia millenaria della città, con l’Anfiteatro Romano, la colonna di Sant’Oronzo, il Sedile cinquecentesco e l’architettura fascista del Palazzo dell’Ina. La facciata della basilica di Santa Croce, altissimo esempio di barocco leccese, confonde per un attimo gli occhi, poi li doma, e poi li strapazza ancora con il suo interno che toglie il fiato.

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L’Anfiteatro romano di Lecce | Foto: Samantha De martin

L’umanità di Cristo, vicina a quel popolo che, anche nelle sue brutture e nei meandri della sua miseria, proprio col Concilio di Trento entra a far parte della storia della salvezza, si riflette nei vecchi pescatori, nei mendicanti, nelle meretrici che affollano la facciata, soggetti di un’arte che trasforma gli ultimi in santi, cristi e madonne.

Ci sono anche dei personaggi che avrebbero voluto lasciare i propri tratti impressi nella pietra di una delle chiese più importanti di Lecce. Si dice che il personaggio dal grosso naso sia Cesare Penna, l’autore del rosone, mentre il volto con la barba sarebbe quello di Francesco Antonio Zimbalo. Pigne, mele, melograni, tralci di vite, oltre a ricordare l’identità della città di Lecce, descrivono una metafora naturalistica e solare della “grazia di Dio”. Con il ticket “LecceEcclesiae” posso visitare, al costo di 9 euro, altri tre gioielli barocchi.

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Lecce barocca | Foto: Samantha De Martin

Un caldo ancora tollerabile in questo giugno di grano mi accompagna verso la Cattedrale di Santissima Maria Assunta, il Duomo di Lecce. Mi accoglie con il suo prospetto laterale, mentre il principale appare quasi nascosto. Qui il contrasto tra il delicato colore della pietra leccese e le ricche policromie di marmi di altari e balaustre è potente. Naso all’insù per ammirare il controsoffitto seicentesco in legno intagliato e arricchito da dorature e via verso l’intima chiesa di Santa Chiara, con il suo interno spazioso. Ed ecco San Matteo, un unicum nel panorama dell’architettura sacra leccese che unisce forme del Barocco romano al tradizionale intaglio decorativo della pietra locale.

Le terre colorate del Salento

Il tempo incalza, Otranto attende. Piccola sosta al laghetto delle Cave di Bauxite (a dieci minuti dal borgo) nella zona del faro di Punta Palascia e del Monte Sant’Angelo. L’alito del Mediterraneo mi investe. Un misto di finocchio, camomilla, tamerici che rasserena. Resterei per sempre a contemplare quest’oro su tela di mare tra il rosso delle rocce che avvolge il piccolo lago color smeraldo. Mi ricorda Chamarel, il villaggio delle dune colorate, sull’isola di Mauritius. Anche questo angolo sembra dipinto, con la cava dismessa. Leggo che l’estrazione della bauxite, iniziata nel 1940, è terminata nel 1976. Da allora è un colorato angolo di natura aperto a tutti.

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Le cave di bauxite | Foto: clonart via Pixabay

La Strada provinciale 369 mi porta alla perla bianca, il punto più a est d’Italia. Centro greco-messapico e romano, poi bizantino e più tardi aragonese, Otranto grandeggia con il suo imponente castello aragonese, la movida e la cattedrale normanna che riposa sui resti di un villaggio messapico, di una domus romana e di un tempio paleocristiano.

Inno alla vita

Il capolavoro dell’arte musiva medievale realizzato tra il 1163 e il 1165, firmato dal monaco Pantaleone vale il viaggio. Il mosaico, che si estende lungo le tre navate, il transetto e l’abside, disegna un maestoso Albero della Vita con temi tratti dall’Antico Testamento, dai vangeli apocrifi, dai cicli cavallereschi e dal bestiario medievale. Avanzate un po’ per vedere le reliquie dei Santi martiri di Otranto, gli 813 abitanti della città salentina uccisi il 14 agosto 1480 dai Turchi di Gedik Ahmet Pascià, per aver rifiutato la conversione all’Islam dopo la caduta della città.

L’ora dell’aperitivo invita a perdersi tra le vene pulsanti di questo borgo dall’anima vivace, nel dedalo di vicoli, cortili, botteghe, scalinate, per scoprire, ad ogni angolo, una meraviglia diversa.

Ho pochi minuti per comprare un paio di sandali in cuoio e mettere in busta la sapienza dell’artigianato salentino. Prendo nota: pelletteria, cartapesta, pumo. Quest’ultimo, un bocciolo di ceramica dalla sagoma un po’ barocca ispirata al culto della dea romana Pomona, ricordando la nascita di un fiore o di un frutto, simboleggia la purezza di un germoglio, la capacità di rigenerazione, la fecondità e la ricchezza. Lo metto in tasca sperando porti fortuna.

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Otranto | Foto: fiammingo via Pixabay

Per celebrare un tramonto di fuoco mi concedo una cena a base di pesce. Mi consigliano “Porto Adriano” a San Cataldo. Scelgo la “pasta con vivo” a base di astice fresco preceduto da una catalana di polpo scottato, cozze al gratin, polpette fritte e una frittura di calamari. La cena è divina e il prezzo adeguato. Degna chiusura di una giornata in Salento.

Nardò, perla barocca

Alle 18 del giorno dopo il mio treno lascerà Bari alla volta di Roma. Senza perdere tempo, lascio a malincuore Lecce con qualche pasticciotto caldo in un vassoio troppo piccolo e punto verso Nardò. Voglio verificare se davvero Piazza Salandra rappresenti, come si dice, uno dei più suggestivi angoli di Barocco.

È così. Tutta archi e balconi, questa elegante piazza con il palazzo di Città, il Sedile, la settecentesca chiesa di S. Trifone, in onore del santo che liberò la città da un’invasione di vespe, la guglia dell’Immacolata, tutta festoni e cuspidi, è un raffinato angolo di tranquillità fuori dal tempo.

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Nardò | Foto: Samantha De Martin

Ultima tappa di questo weekend che concede un assaggio di Puglia, Gallipoli. Il borgo antico, abbarbicato su un’isola calcarea, stretto tra i suoi bastioni che domano lo Jonio, è collegato alla terraferma tramite un ponte ad archi.

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Gallipoli con il Castello | Foto: pcdazero via Pixabay

La basilica concattedrale dedicata a Sant’Agata, espressione del barocco gallipolino, e la fontana greca, decorata da bassorilievi ispirati alla mitologia greca, il santuario della Madonna del Canneto valgono una visita. Un tripudio di palazzi si insinua tra botteghe, ristoranti, profumi, negozietti tipici. Percorro le mura edificate a partire dal XIV secolo e ammodernate nel Cinquecento in epoca spagnola. Rinuncio al bagno in un mare di cristallo e punto verso Bari.

Due ore esatte mi separano da una Bari vecchia che commuove, con le sue donne intente a preparare le orecchiette, le porte aperte delle case me le fanno intravedere dedite alla loro attività antica.

Rimando la visita alla città al prossimo viaggio. Il lungomare, il Castello voluto da Federico II, il Teatro Petruzzelli sfilano sfocati dalla fretta dei miei piedi. Ripartirò da qui, nella mia prossima puntata in Puglia. E come quando un saluto dura più di un tramonto che si vorrebbe eterno, mi congedo dalla città, con il treno che sgattaiola fuori dalla stazione.

Il mio assaggio di Puglia mi lascia un sapore, un sorriso misto all’odore del bucato steso ad asciugare, al profumo della focaccia appena sfornata. Ancora una volta lascio un segnalibro e punto verso nord.

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